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Beatrice Bianchini
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SANCTUARY (‘96)

beatrice bianchini
Pubblicato da in 2022 ·
di Zachary Wigan
con Margaret Qualley, Christopher Abbott

Il “principio del piacere” assorbe il “principio della realtà”, la sessualità
sembra venir liberata, mentre viene semplicemente liberalizzata ed
amministrata come strumento di adattamento passivo dalla logica del
sistema. Cadono gli stupidi arcaici tabù sul sesso in vigore presso società
in preda alla scarsità, ma non per questo il sesso libera sè stesso
trasfigurandosi in eros.
(Herbert Marcuse)

Albergo di lusso.
Hal Portefield, ricco erede di una catena di alberghi, riceve Rebecca,
una dominatrix, una professionista, la cosiddetta padrona nelle
pratiche indicate dall’acronimo BDSM.
Rebecca lavora per la Lichter Heynes e Associati e l’incontro prevede
una propedeuticità: compilare un modulo dove il cliente deve
rispondere ad una serie di domande su malattie, eventuali ricoveri per
dipendenze, età del primo rapporto sessuale.
C’è un contratto da firmare nonostante i due
sembrino conoscersi <bene,
Lui fa un’ordinazione al ristorante e lei si adopera a organizzare i
documenti nella sua valigetta business.
Si prevede anche una registrazione oltre all’inizio dell’umiliazione
verbale e della sottomissione fisica.
Nessuna scena erotica né tantomeno pornografica: Rebecca non tocca
e non si fa toccare, non è qualcosa di fisico ma di mentale.
Rebecca toglie la parrucca bionda…
Nulla è come sembra e tutto appare per quello che non è…
Tutto avviene nello spazio chiuso di una camera d’albergo, come nello
spazio mentale/claustrofobico dei protagonisti, l’uno per scelta, l’altra
per professione, forse.
I ruoli non si invertono mai, ma la metabolè aristotelica fa
ripetutamente il suo ingresso nella storia, sebbene il colpo di scena
finale tanto annunciato non sia di certo l’aspetto più sorprendente.
Il sesso, diversamente da ciò che cinema e letteratura ci hanno abituati
a immaginare c’entra ma fino ad un certo punto, queste relazioni
vanno oltre, sono “penetrazioni mentali”, più che fisiche e per chi le
pratica sono più coinvolgenti del sesso tradizionale, che resta sullo
sfondo o non c’è proprio.
Chi comanda chi e cosa comanda cosa…
Chi comanda cosa e cosa comanda chi…
Il gioco della servitù volontaria che vede l’umiliato padrone
“consapevole” in questo caso della propria umiliazione e il servo,
hegelianamente padrone del padrone, a sua volta però servo del servo.
Un gioco ad incastri divertenti e intriganti, un film frenetico e
affannato nella esplicitazione verbale e dialettica di un intreccio dove
la sceneggiatura deve essere implacabilmente perfetta.
Frammenti di un discorso perverso dove il carnefice e il masochista
sono le facce della stessa medaglia.
Un gioco di potere, un gioco d’azzardo nel quale è lecito rimanere
incastrati e dal quale è difficile sottrarsi, ognuno attraverso la sua
maniacalità, nevrosi, follia, forza o debolezza che sia.
Una fragilità esistenziale che cerca di colmarsi attraverso una
condivisione duale sulla quale costruire
un alibi relazionale più o meno funzionale.
Un distopia carnale senza carne, dove si cerca di conciliare l’esteriorità
dei corpi con l’interiorità di un vissuto estremo e conflittuale.
Un film che offre un ritratto estetizzante, a tratti stucchevole,
dove tuttavia “l’idea che la superficie sia superficiale
è un idea molto superficiale”.
Un confronto relazionale costruito su un vissuto coniugale alternativo,
economicamente privilegiato, nel quale tuttavia occorre interpretare
un ruolo ben definito, quello di azzerare la propria intimità e mettere
sé stessi in balia dell’altro, che diviene essenziale per costruire la
propria dimensione di fuga dalla realtà insoddisfacente,
routinaria e banale.
La finzione cinematografica ritrae la finzione relazionale costruita
sulla necessità dell’espressione altrimenti inesprimibile della propria
interdipendenza.
Un metaverso sessuale dove la chat è multidimensionale e il gioco di
ruolo pura virtual reality, perché dialogo e azioni prevedono
molteplici protagonisti, nonostante sembrino apparentemente due,
quei due che solo in “un’altra dimensione” hanno il coraggio di essere
“se stessi” fino in fondo, quel fondo
che il mondo reale non deve vedere.
Un gioco psicologico al massacro, per soddisfare la propria risposta ad
un godimento, così intimo ma tuttavia così esposto e artificiale.
Zachary Whigan rappresenta il surrealismo della pulsione, perché la
pulsione gode in maniera surreale; costruisce un montaggio dove la
metasceneggiatura prevede la sceneggiatura dove gli attori sono a loro
volta registi, attori e sceneggiatori in preda alla pulsione che è
anarchia, lussuria, eccedenza mai riproduttiva; non è affatto incontro
di corpi ma scontro di menti e dove trionfa il surrealismo della
sessualità scombinata.
L’inganno è il vero protagonista, la maschera il maquillage, la
performance un apparente mutevole divenire già programmato da
quel mercato che imprigiona gli attori ciascuno nell’immagine
dell’altro condannanti dalla presunta libertà di scelta.
Sanctuary è un password e anche il Santuario del BDSM, dove l’atrofia
degli organi mentali supera quella degli organi sessuali e la sacralità
dell’eros si perde nel labirinto della reificazione.
L’assimilazione fallico-feticistica della vita sessuale è un frutto bacato
dell’iperedonismo contemporaneo e non il prodotto di una liberazione
effettiva della sessualità e dell’erotismo.
La scarica pulsionale viene adoperata per raggiungere un godimento
d’organo immediato che cancella il desiderio e la quota di angoscia.
( M. Recalcati)



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Ideato e realizzato da Sandro Alongi
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