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Beatrice Bianchini
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SAINT OMER (‘123) Venezia 79

beatrice bianchini
Pubblicato da in 2022 ·
di Alice Diop
con Kavije Kagame, Guslagie Malanga, Faith Sahin, Bearkat Akinci,
Salih Sigirci

La maternità è un evento biologico: è necessaria la disponibilità
dell’inconscio.

Laurence Coly ha ucciso la figlia di quindici mesi lasciandola su una
spiaggia e sperando che il mare la portasse via. Ma il mare l’ha lasciata
lì e la madre è sotto processo.
Condotta in udienza con le manette ai polsi, Laurence confessa senza
esitazione e senza fornire plausibili motivi anche lontanamente validi.
Il tutto sotto l’occhio della madre, del giudice, avvocati e pubblico
ministero ma anche di Rama, una scrittrice, alter ego della regista,
incinta di un figlio.
Prendendo spunto da un fatto di cronaca, la Diop ricostruisce il
procedimento penale svoltosi realmente in Francia nel 2016.
Lunghi piani sequenza, silenzi che si alternano a domande che cercano
di comprendere, come quelle del giudice, quelle che insinuano
intenzionalità e lucidità del pubblico ministero e quelle dell’avvocato
della giovane madre, che cerca di comprendere e far comprendere. La
sacralità, il senso di oppressione che si vive è soffocante mentre sullo
schermo compaiono le immagini di Pasolini e di quella Medea che
aleggia nella storia della tragedia, della letteratura e della
cinematografia.
Il mito della madre, quel mito costruito ad arte che ogni volta si
infrange come fosse la prima volta sotto forma di domande
incomprensibilmente attonite e sbalordite.

Nella donna, si dibattono due soggettività antitetiche perché una vive a
spese dell’altra. Una soggettività che dice “io” e una soggettività che fa
sentire la donna depositaria della “specie”.
L’ambivalenza del sentimento materno generato dalla doppia
soggettività che è in ciascuno di noi, va riconosciuto e accettato come
cosa naturale e non con il senso di colpa che può nascere
dall’interpretare come incompiutezza o inautenticità del sentimento
quello che è la sua naturale ambivalenza.
( U. Galimberti)

Saint Omer, squarcia di nuovo lo schermo comprimendo le distanze tra
la finzione e la realtà con un sguardo emorragico e
contemporaneamente coagulante: nell’ incomprensibilità dell’atto
tutto si fa chiaro e netto seppur tragicamente.
Laurence Coly nella sua distante e a tratti algida freddezza, risponde
attentamente alle domande senza cedere ad espressività formali.
L’estetica asciutta e minimale della ricostruzione giuridica, consente
allo spettatore di sentirsi parte di quei corpi vittime o assassini che
spesso sono solo nomi in pasto alla cronaca senza un vissuto da
individuare e indagare e al quale restituire dignità e identità.
Il mistero che aleggia si dipana in tutta la sua complessità
nell’impossibilità di rimanerne indifferenti.
Opera prima che prende spunto dalla storia vera di Fabienne Kagou
che ha evocato a processo anche la presenza oscura della stregoneria
alle quale allude anche la Laurence Coly.
Quanto la nostra cultura può intenderla una banale suggestione o il
tessuto profondo di una cultura da accogliere e indagare?
Il rapporto madre-figlia inoltre è uno degli snodi principali del film sul
quale si muovono inquietanti interrogativi che vedranno nell’
indimenticabile arringa finale l’ontologico risvolto del mistero della
procreazione.
Un susseguirsi di concatenamenti perlopiù femminili tra il
concepimento e la distribuzione delle cellule tra chi produce vita è chi
la eredita e la responsabilità opprimente che tutto questo comporta.
Laurence è vittima di stregoneria, semplicemente assassina o pazza?
Può essere tutto o niente, ma l’arringa finale che rimarrà
indimenticabile nella storia della cinematografia ne da una
interpretazione netta, destrutturando qualunque pregiudizio
antropologico, culturale, etico e logico.

La responsabilità della procreazione, una e trina, va molto oltre alla
tenuta in vita della propria prole e averne consapevolezza può
diventare insopportabile e condurre anche alla pazzia.
Maternità, procreazione, cultura, antropologia, mito, tragedia, pazzia e
responsabilità individuale e sociale: tutto questo mette in campo
magistralmente la Diop, in un’opera prima indiscutibile, per intensità
concettuale, e per profondità culturale e per l’abilità di registrare la
giusta distanza attraverso l’infallibilità e la complessità del kata
metron per esplorare la tortuosità della follia umana piuttosto che
relegarla alla casistica psichiatrica e liquidarla nel perfetto stile della
rimozione.

La retorica dei buoni sentimenti è una spessa coltre che stendiamo
sull’ambivalenza della nostra anima, dove l’amore si incatena all’odio, il
piacere con il dolore, la benedizione con la maledizione, la luce del
giorno con il buio della notte.
Perché nel profondo tutte le cose sono incatenate e intrecciate in
un’invisibile disarmonia. E scrutare l’abisso che queste cose sottende è
compito ormai trascurato dalla nostra cultura che con troppa
semplicità distingue il bene dal male come se i due non si fossero mai
incontrati e affratellati.
( U. Galimberti)



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