di Marco Bellocchio
con Fabrizio Gifuni, Margherita Buy, Tony Servillo, Gigio Alberti,
Fausto Russo Alesi, Gabriel Montesi, Daniela Marra, Paolo Pierobon,
Fabrizio Contri
A pensare male degli altri si fa peccato ma spesso si indovina
( Giulio Andreotti)
Bellocchio inizia dalla fine proponendo un esito diverso dalla
cronaca,
per non dare adito a fraintendimenti. La sua ennesima proposta
del rapimento Moro,
questa volta è netta: se il parlamentare, statista
professore di Diritto fosse
stato rilasciato dalle brigate rosse di
sarebbe dimesso dalla DC con un discorso
chiaro e inequivocabile.
Due parti divise in tre punti di vista: quello politico pubblico,
costellato da segreti, diffidenze, irresponsabilità,
inadempienze più o
meno volontarie e infide; quello familiare,
sobrio, intimo, privato;
quello delle brigate rosse con le scelte, gli eventi,
le incomprensioni
interne, il rapporto con il rapito, tra la criminalità dei
tempi
politici e rivoluzionari e il rispetto della dignità e della fede.
Lo spaccato dedicato al Papa, allora Paolo VI insieme alla figura
della
moglie di Moro attraverso la quale emergono in modo netto i
profili e le responsabilità dei colleghi, amici/nemici/ indifferenti
all’aspetto umano
del caso a vantaggio dell’ inconfessabile e
inaccettabile apertura del
parlamentare DC al 33% dell’elettorato
comunista,
sono inevitabilmente descrittivi di tutto quello che accadde
in quei mesi sebbene “ ogni rifermento a persone
esistenti o a fatti
realmente accaduti” sarebbe “ puramente casuale”
Sei episodi per la tv, ora al cinema, prima parte dal 18 maggio, seconda dal 9 giugno.
Una narrazione impeccabile di anni inquieti, laddove la strumentalizzazione
dei fatti supera la criminalità degli stessi.
Il 16 marzo, proprio nel giorno dell’ insediamento di un governo
sostenuto dal partito comunista del quale il presidente della DC era
il
principale fautore in nome di una democraticità cattolica
presuntuosamente “ ingenua”, viene rapito Aldo Moro e, dopo 50 giorni di
prigionia,
tra richieste, trattative e misfatti viene
ucciso “ sebbene
il gesto veramente rivoluzionario sarebbe stato liberarlo”
almeno
secondo la Faranda di Bellocchio.
Assiduo frequentatore delle pellicole del regista di Bobbio è il
lettino dello psicanalista
dove viene palesata la psicopatologia di
Andreotti, la bipolarità di Cossiga e la notoria
onestà di Zaccagnini,
così da renderlo una figura capace di intendere ma non di potere.
Il simbolo del partito della democrazia cristiana vede nella
locandina del film la croce ricoperta di rose rosso sangue e lo scudo
fatto di rovi di spine. Basterebbe questo per individuare IL punto di
vista
ma l’invito a ripercorrere quegli anni nella pellicola di
Bellocchio è imperativo
e l’occasione imperdibile.
Chi non vuole far sapere una cosa, in fondo non deve confessarla neanche a se stesso,
perché non bisogna mai lasciare tracce.
( Giulio Andreotti)