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Beatrice Bianchini
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WE (’90) (2018)

beatrice bianchini
Pubblicato da in 2018 ·
di Rene Eller

Otto adolescenti vivono in un villaggio al confine tra Belgio e Olanda.
Sono quattro ragazzi e quattro ragazze, non lavorano, non studiano, le famiglie sono piuttosto assenti.
Individuano una roulotte dove riunirsi e praticare giochi e passatempi idioti e violenti.
Senza alcun apparente problema economico sembrano convergere su un unico obiettivo: fare qualcosa di sensazionale e fare soldi.
Provocare incidenti in autostrada alzando le gonne sul cavalcavia, strappare cani dall’anziana signora per legarli ai binari e vedere l’effetto che fa quando passa il treno; organizzare vere e proprie gang-bang da filmare accuratamente mascherati per non farsi riconoscere; fare giochi a quiz dove le ragazze devono indovinare a chi appartiene il fallo umano, non umano, disumano…
Sesso, pornografia, ricatti, abusi, aborti violenti, tutto come se fosse un gioco, compresa la prostituzione.
C’è l’artista che vuole produrre un arte iper-reale, la ragazza desiderata da tutti che a causa di un gioco fallico perderà la vita, e il manipolatore forse abusato o forse no.
La loro incoscienza si alimenta di violenza, di morte, di ricatti, di corpi usati e abusati, di giochi sociopatici al rialzo.
Il vissuto con cui conducono leggiadramente le loro ludiche peripezie li colloca lontani dalle atmosfere di Funny Games di stile Hanekiano o Kubrickiano; qui la violenza è troppo facile per essere riconosciuta come violenza.
Sebbene il film sia nord-europeo il femminile apparentemente disinibito, ostenta altresì la benché minima percezione del proprio corpo; abusato, offerto, venduto, registrato come se fosse un abito da indossare, lavare, strappare con estrema leggiadria. La gestione del proprio corpo è assimilabile a quella di un salsa ketchup con la quale accompagnare qualunque companatico sul mercato.
I ragazzi sono complici-sfruttatori del loro corpo per poter acquistare potere sui loro clienti e perché no acquistare così 5 moto al prezzo di una presso un incauto venditore/cliente di minori.
Nessun uso di sostanze tra i ragazzi perché il loro analfabetismo emozionale non ha bisogno di droghe, il vuoto che li invade non conosce le vocali per invocare alcun succedaneo emotivo.
Come per gli animali non c’è desiderio, neanche sessuale, ma solo istinto ereditato filogeneticamente; non c’è alcuna forma di erotismo: il corpo è governato integralmente dalle meccaniche naturali dell’istinto, totalmente asservito all’unica perversione della visibilità e del denaro.
Il consumo dei ragazzi è iperedonistico, pertanto privo di qualunque desiderio.
Il loro vuoto non prevede la mancanza ma solo il godimento che non ha necessità di desiderare; quello che si esercita è il gesto senza alcuna risonanza emotiva: emozione, pensiero e gesto sono scollegati.
Come scollegato e abilmente sceneggiato risulta il film di Eller, con flashback e cesure narrative accompagnato da un montaggio estremo e sofisticato.
Forma e contenuto seguono una stessa traccia interrotta e abilmente ritrovata per raccontare un fenomeno quello giovanile privo ormai di qualunque rimando noumenico; la profondità non c’è ma solo una rappresentazione determinata da una volontà di vivere priva di qualunque scopo nella quale il finito non si risolve più hegelianamente in infinito perché non ha più la possibilità di diventare coscienza felice. L’alienazione estrema diventa l’unica condizione metafisica e ontologica e la presa di coscienza, qualora possibile, sarebbe l’unica disperante possibilità, l’unico “sguardo che fissa l’orrore, gli tiene testa, e nella coscienza irriducibile della negatività, ritiene la possibilità del meglio”.
Ma chi può osare tanto?
La drammatica inconsapevolezza è la vera protagonista, e i ragazzi ritratti nel film ne sono le vittime prescelte: la strumentalizzazione dell’altro diviene il mezzo per raggiungere il fine attraverso il mezzo stesso del proprio corpo, o meglio del corpo delle ragazze, usato e abusato come merce per avere quel denaro, unico vero fine di un sesso privo di qualunque nesso.
Il sesso di un corpo dematerializzato, privato, essiccato, disidratato di desideri che, non potendo più sostare nell’attesa, non possono più ricorrere alla rianimazione di uno spazio, una volta tempo di vita.
Pertanto la vita dei ragazzi si svolge in un presente sempre così presente che la sua invadenza non ha più la capacità di rivolgere lo sguardo al passato, povero passato, e al futuro che non c’è.
Quindi l’incantesimo del presente diventa la condizione dell’incubo in cui tutto è possibile, soprattutto l’orrore disumano.
Un film straziante, un film che fa male soprattutto per l’apparente ludicità del vissuto dei ragazzi travolti dalla noumenica volontà di vivere senza ragione e senza scopo.
L’esaltazione psichedelica di una vita che non è altro che istinto di morte, disperazione esistenziale, vanità insonorizzata di un vuoto incolmabile.
E mentre tutto accade a loro insaputa l’incapacità di intendere e di volere non li salverà dalla condanna che si sono procurati perché se la legge non prevede ignoranza la vita non la consente.
Il film, tratto dal controverso racconto di Elvis Peeter, presentato a 23 Festival internazionali e al Rome Indipendent Film Festival, conferma le inattuali previsioni degli intellettuali del ventesimo secolo e fa convergere nello sguardo del cinema attento l’inquadratura ad alta risoluzione dell’esaurimento delle scorte di un orizzonte ormai tramontato.
Non diversamente da Nocturama, che racconta altresì la storia di ragazzi politicamente impegnati, questo film non esita a denunciare la catastrofe di una gioventù annullata, cancellata, eliminata da una realtà distorta e irreversibilmente disturbata che ordisce brutti scherzi, che tesse pericolose trappole che destina le nuove generazioni a non essere mai nate.




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