ArtBea
Beatrice Bianchini
Vai ai contenuti

THE MOUNTIN (‘106) (2018)

beatrice bianchini
Pubblicato da in 2018 ·
di Rick Alverson
con Jeff Goldblum, Hannah Gross, Udo Kier


Matto. Affetto da un alto grado di indipendenza intellettuale; non conforme ai modelli di pensiero, parola e azione, che la maggioranza ricava dallo studio di sé stessa. In poche parole, diverso dagli altri.
(Ambrose Bierce)
“Dove vanno le persone dopo che le cambi?”

Un ragazzo gestisce una pista di pattinaggio sul ghiaccio insieme al padre con il quale vive fino a quando la morte improvvisa del genitore lo porta a fare la conoscenza del Dott. Wallace Fiennes, fautore della lobotomia estrema per curare le malattie mentali. La madre del giovane era stata curata da lui e ora il neurologo ha bisogno di un collaboratore che si occupi delle fotografie/ritratto dei suoi pazienti prima e post terapia.
Il ragazzo già traumatizzato dall’assenza della madre, dai racconti e le bizzarrie del padre, si addentra nei reparti psichiatrici e assiste agli interventi del medico più interessato a manipolare gli altri che ad indagare su se stesso e sui suoi disturbi.
Il ragazzo introverso e taciturno, ha estremo bisogno di comprendere quel mondo che gli ha allontanato la madre nonostante il padre gli dicesse che aveva liberamente scelto di non vedere più suo figlio.
Incontra una donna e poi la figlia Susan, sottoposta anch’essa, per volere di un padre disturbato e istrionico, al trattamento di lobotomia. Il ragazzo assiste e decide per un soluzione definitiva al suo dolore, mentre le inquadrature fredde, statiche e perturbanti solcano lo sguardo vuoto e inquietante dei pazienti sottoposti al trattamento.
Se un quadro, come sostiene il padre di Susan non è una montagna ma semplicemente la rappresentazione di essa, ossia ne è l’immagine, il simulacro, anche i pazienti del dottor Fiennes diventano l’immagine, una superficie senza profondità, ridotti alla rimozione di quella parte di Es o meglio di quella grande percentuale di inconscio che costituisce l’identità più o meno rimossa di ciascuno di noi.
Liberamente ispirato alla figura del neurologo Freeman, Alverson si concentra soprattutto sulla procedura del medico che consentiva di accedere al cervello dei pazienti senza forare il cranio, ma attraverso le orbite oculari. Dopo varie sperimentazioni sui cadaveri, non riuscendo a trovare un mezzo che permettesse di oltrepassare le orbite per arrivare al cervello, agiva con un punteruolo rompighiaccio e con un martello. Così nacque la lobotomia transorbitale, praticabile in sette minuti e poco dispendiosa in quanto non necessitava né di personale né di tecnica operatoria: il paziente veniva messo in stato confusionario attraverso la terapia elettroconvulsivante che dava scosse elettriche a intervalli regolari.
Più di duemila furono i pazienti che subirono il trattamento, tra i quali anche Rosemary Kennedy, e l’obiettivo era quello di restituire alle famiglie persone innocue e assolutamente docili.
Questa era la missione dichiarata del neurologo mentre esercitare il potere che annulla le volontà altrui sembrava il suo vero obbiettivo.
Le donne, in questa pellicola, sono le destinatarie privilegiate di questo trattamento, come lo era l’annullamento psico-fisico delle streghe del tardo medioevo.
La scelta definitiva e volontaria del ragazzo apre una finestra, un ritratto, un’istantanea su un mondo crudele, violento e conformante.
Viaggiare nel mondo nel quale vanno le persone quando sono state cambiate è l’estremo desiderio, è il tentativo di colmare l’assenza a costo del sacrificio del proprio io.
La follia è l’incapacità di comunicare le tue idee. È come se tu fossi in un paese straniero: vedi tutto, comprendi tutto quello che succede intorno a te, ma sei incapace di spiegarti e di essere aiutata, perché non capisci la lingua. (P. Coehlo)
Dalla lobotomia, ai farmaci ai trattamenti omologanti di una società che assume la diversità e la peculiarità come nemico estremo da combattere il passo è stato breve e il trattamento estetico di estraniamento al quale questo film ci sottopone lo rende l’emblematica e fotografica installazione contemporanea di vissuti biologici alienati dalla propria specifica, profonda, artistica dignità.
Vero cinema indipendente con uno sguardo Magrittiano della realtà. Estraneo a qualunque ammiccamento al mercato.
Sorprendentemente disturbante.



Nessun commento




Ideato e realizzato da Sandro Alongi
Torna ai contenuti