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Beatrice Bianchini
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SILENT VOICE (’51)

beatrice bianchini
Pubblicato da in 2021 ·
di Reka Valerik

Khavaj e’ fuggito dalla Cecenia non per questioni legali, militari o civili; è un pugile
pluripremiato e mantiene la famiglia con i soldi che guadagna dagli incontri.
Dopo essere stato torturato si reca clandestinamente in Belgio dove
intraprende un percorso di clandestinità: perseguitato in patria e fuori deve
far perdere le sue tracce: scoperta la sua omosessualità non c’è posto per lui in un
paese dove si nega l’esistenza degli omosessuali se non come malati da curare.
Il percorso per accedere al riconoscimento di rifugiato
prevede continui spostamenti; sebbene sia in Belgio e pertanto al sicuro c’è nel paese ù
una forte comunità cecena che potrebbe rintracciarlo.
Khavaj, come tutti gli altri che vivono la sua sorte, non può sentire la famiglia,
che potrebbe rintracciarlo e lui peraltro ha il fratello che è stato il primo a torturarlo e a rifiutarlo.
Cambierà città e poi nome e cognome per acquisire stabilmente
l’identità di rifugiato, un nuovo nome ed essere libero di non essere rintracciato.
L’unico contatto che ha con la famiglia sono i messaggi vocali che riceve dalla
madre ai quali non può rispondere, non solo per protezione ma anche perché a causa
delle torture Khavaj ha perso la voce, la sua è considerata afasia psicogena.
Un percorso riabilitativo per recuperare la voce è previsto anche
se la causa non è organica ma psicologica.
Dai messaggi della madre che gli chiede cosa avrebbe fatto nella palestra
di boxe per aver disonorato i fratelli si comprende che inizialmente la madre non sa…
Il fratello Rouslan ha bruciato tutte le tue foto dice che non esiste più.
In seguito la madre gli dice di aver parlato con il mullah il quale
dice che può essere curato se non si reca in occidente dove peggiorerebbe.
Khavaj viene ripreso sempre di spalle, sul letto, chiuso in casa,
mentre si allena o mentre cammina, il volto non si vede mai.
A procedura finita dovrà costruirsi una nuova identità, ma senza voce è difficile.
Tutte le palestre di boxe in Belgio sono di ceceni,
il pericolo di essere rintracciato incombe; membri della
sua famiglia hanno chiesto di lui ad Anversa, deve pertanto spostarsi di nuovo.
Avrà una lista di nomi fiamminghi dalla quale scegliere.
Il film rimanda alla metafora delle meteoriti così piccole che non sono visibili
finché sono al di fuori della atmosfera terrestre: come l’esistenza invisibile di Khavaj
fino a quando non sarà riconosciuto da una nuova identità che è ancora senza volto.
La madre gli comunica nell’ultimo messaggio che lo ama anche se lui
non risponde e che hanno problemi economici senza i guadagni dei suoi incontri
di boxe e che hanno dovuto vendere le medaglie; la guerra avrebbe distrutto
tutto e le donne sono meno libere di prima.
“Senti i miei messaggi ma non rispondi; sei sparito senza un saluto” conclude la madre…

Non c’è identità senza riconoscimento; non c’è riconoscimento
senza diritto di parola; Khavaj fugge senza diritti e l’afasia acquisita ritrae perfettamente
la sua condizione: lui è un perseguitato, la sua identità sessuale condannata lo
costringe ad una vita da esule, una vita notturna e solitaria, dove non c’è volto né voce
per chi non ha identità. La sua quotidianità viene pedinata a distanza insieme a  quello
che rimane della sua voce straziata e del suo tentativo di recupero.
Valerik propone il piccolo/grande spaccato intimo di un uomo invisibile e silenzioso e deprivato di qualunque dignità; paralizzato e ammutolito dalla crudeltà di una cultura incapace di qualunque pietà umana.

La principale speranza di armonia nel nostro tormentato mondo risiede nella
pluralità delle nostre identità, che si intrecciano l’una con l’altra e sono refrattarie a divisioni
drastiche lungo linee di confini invalicabili a cui non si può opporre resistenza.
( Amartya Sen)



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