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Beatrice Bianchini
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SELF PORTRAIT (’77)

beatrice bianchini
Pubblicato da in 2020 ·
di Katja Hogset, Matgreth Olin, Espen Wallin

La fotografia rappresenta un certificato di morte ma, nello stesso tempo,
una promessa di resurrezione; è un documento impassibile, ma, nello
stesso tempo, una fontana di lacrime esistenziali. Più ancora: obbedisce
al tempo e lo fulmina; sanziona una perdita e vi sostituisce un simulacro
immortale…
(Gesualdo Bufalino)

LENE MARIE FOSSEN si nutre, respira, vive, realizza le sue foto
scolpendo il suo corpo.
A 12 anni circa ha deciso di non voler crescere e ha iniziato ad
imporsi una disciplina ferrea che le impedisse di assumere sembianze
banali.
Tutto doveva iscriversi sull’altare del sacrificio nonostante la sua
immagine ostentasse con orgoglio la sua voglia di vivere.

Si sentiva come un edificio in fiamme Lene Marie, e mentre una mano
tentava di uscire l’altra si aggrappava alla malattia.

Quella malattia voluta, perseguita, ricercata, esposta, immortalata ad
arte, per non voler morire nonostante la sua esile e ingombrante
presenza.
Rimanere bambina, fermare il tempo per produrre quella inquietante
bellezza che solo una vita di dolore, il suo e quello dei rifugiati e degli
anziani che amava ritrarre.

L’arte come dovere e l’impossibilità di guarire per il timore che una
diversa condizione influenzasse e sottraesse l’ispirazione.
Lene Marie descrive la parte più brutale della malattia nella
impossibilità di far comprendere che non può essere il mangiare la
soluzione: vuole essere un’artista e non una malata.

Fare di sé un’opera d’arte, usare se stessa come un progetto per
comunicare: le sue sublimi e laceranti fotografie non sono
sull’anoressia ma sul dolore umano, quel dolore umano rappresentato

dalle case diroccate che hanno tuttavia bisogno di una presenza, la
sua.
Il dolore della sua immagine ha consentito lo spazio della
comunicazione con i rifugiati: fotografare è un incontro di umanità.
Quando la vita nasce deve essere amata perché esiste e anche se il
dolore può diventare più forte come quello di Lene Marie, lei sa bene
che ogni essere umano anche se malvagio vuole essere felice e che la
vita è un dono bellissimo sebbene non siamo capaci di viverla e di
diventare ciò che si vuole essere.

E’ come se avessi chiuso le emozioni in una scatola dentro di me ed ho
paura che se la apro ho un carico troppo grande da gestire.
Le mie foto sono una chiave se esiste la chiave, ma non ho ancora capito
in che modo

Morten Krogvold, fotografo e scrittore norvegese è stato uno dei primi
a scoprire l’esclusivo talento della giovane artista e ad organizzarne
una mostra di grande successo; un riconoscimento pubblico
fondamentale per Lene Marie.

Costei vive la sua malattia come l’unica sicurezza perché questa
sicurezza è la conditio sine qua non della sua arte e lei è un’artista e
non una malattia.

Su questo inestricabile dato le registe individuano il filo conduttore di
una esistenza così straordinariamente conflittuale.
Nel suo corpo scavato, SCOLPITO, si legge una biografia e non una
patologia, dove dietro l’oggettività dei segni sintomatici non scompare
la soggettività di una donna, di un suo modo di vivere, di una sua
differenza individuale, l’espressione di un disagio e di uno squilibrio.

Il documentario dedica uno sguardo attento, uno sguardo che si
prende cura di un corpo che diviene punto di convergenza e centro di
irradiazione dove sottesa c’è una riflessione sulla vita in generale
sebbene l’azione della sua malattia si svolge di diritto nella forma
dell’individualità.

Uno sguardo che scorge nel sintomo un simbolo, uno sguardo che
ascolta e che parla urlando nei solchi scavati, nella carne tra le ossa,
che il corpo non coincide con l’organismo che non sa nulla del mondo
che attrae e delude, che non conosce la qualità delle passioni e non
abita quei volumi di senso in cui il corpo si esprime vivendo.

Quando la vita gioca di continuo ai confini con la morte non sono le
parole che si dicono in vita che possono tenere lontani dalla morte, ma
solo lo scambio di una vita con la morte, purchè quella morte sia
raccolta da una vita, e quella vita, proprio a partire dalla morte,
ricominci a capirsi.
(Umberto Galimberti)



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Ideato e realizzato da Sandro Alongi
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