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Beatrice Bianchini
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Maternal (’91)

beatrice bianchini
Pubblicato da in 2021 ·
di Maura Delpero
con Lidya Liberman, Renata Palminiello, Denise Carrizio, Agustina
Malale, Marta Lubos Isabella Cilia, Alan Rivas, Livia Fernan.

L’Hogar è un luogo in cui le mamme che si trovano in situazione di
emarginazione e abbandono possono contare nella protezione che
normalmente caratterizzano una casa.
Le ragazzine madri -spesso bambine- vengono accolte nell’Hogar nel
momento più delicato, ossia quello immediatamente precedente e
successivo al parto, e vengono sostenute dal punto di vista materiale.
Queste adolescenti vivono una condizione di profonda fragilità:
purtroppo, nella realtà della baraccopoli, le villas miseria, i casi di
abbandono familiare da parte degli uomini sono frequentissimi-
prodotto di una mentalità diffusa di feroce maschilismo- e le ragazze si
ritrovano in stato di gravidanza senza poter contare su nessuno.
L’assoluta mancanza di affetto a cui sono state da sempre abituate le
porta ad una scarsissima autostima di sé, come persone e come
madri, e rende molto contrastato il rapporto con il figlio.
Secondo recenti statistiche, ancora oggi nella zona di Posadas -
storicamente una delle più povere regioni del paese- circa il 21% dei
neonati ha una madre di età compresa fra i 10 e i 19 anni e
purtroppo il fenomeno è in crescita.
Attualmente esistono in zona 1.625 mamme
tra i 15 e i 19 anni che hanno già due figli. Inoltre, in questi ultimi anni
le  situazioni risultano sempre più complicate: non esistono
alternative di accoglienza in zona, come nel caso delle minorenni
vittime della “tratta”, ossia di sequestri per prostituzione e delle
vittime di violenza domestica in cerca di rifugio.

https://www.jardin.it/dall-argentina/il-significato-di-hogar/

Qui siamo in un centro religioso italo argentino, un hogar gestito da
suore per ragazze madri. Suor Paola è appena arrivata a Buenos Aires
dall’Italia e deve prendere i voti perpetui. Lu e Fati sono due
diciassettenni, completamente diverse, ma entrambi con lo stesso
destino: essere ragazze madri.
Il contrasto tra le suore e le ragazze si evince immediatamente: le
prime con il voto di castità e una vita prestabilita all’insegna delle
regole, le seconde, ciascuna con trascorsi diversi, alcune vittime
dell’ambiente e della violenza maschile, altre anche della sprovveduta
conflittualità con il proprio corpo e la propria sessualità.

Così racconta la sua esperienza la regista:
Per tanto tempo ho lavorato a Buenos Aires in un istituto religioso
italiano per madri adolescenti. Non mi sono fermata sulla soglia a
spiare dai corridoi, sono entrata nelle loro stanze, le ho ascoltate e
osservate, ho condiviso le loro inquietudini, ci siamo conosciute. Mi è
stato possibile, e forse necessario, perché in MATERNAL c’è tanto di me,
del mio presente e del mio passato: l’odore d’incenso della bambina
cattolica, le amicizie e gli amori dell’adolescente assetata di passioni, il
senso di maternità della donna. Sono diventata per loro una figura
familiare, empatica e insieme invisibile. Da questa posizione interna,
personale ed emotiva ho iniziato a scrivere un film sulla loro singolare
storia di giovani donne. Quando mi sono avvicinata di più al mondo delle
religiose che le seguono, ho sentito che stavo vivendo un’esperienza
complessa e unica: la maternità adolescente non era l’unico paradosso
con cui mi stavo confrontando. Una sedicenne incinta impressiona lo
sguardo. Un viso di bambina che allatta porta con sé una contraddizione
commovente. Ciò nonostante, è stata l’immagine epifanica di una
giovane suora che cullava uno dei loro figli che ha messo in moto il film:
in quel momento ho realizzato tutta la potenza del cortocircuito
emotivo di un mondo femminile chiuso, paradossale e affascinante in cui
la maternità precoce delle ragazze convive con quella assente delle
religiose. La scrittura ha seguito il desiderio di evocare la complessità e
le contraddizioni di questo universo singolare.

Più che le madri, qui sono i figli che le descrivono:
Nina è la figlia di Lu, una ragazza/madre insofferente alla sua
condizione, in cerca di fuggire con il fidanzato che la picchia ma che le
dice “mi fai impazzire” e lei ci “casca” ogni volta, rimanendo in attesa
eterna dei suoi messaggi; Nina cerca sempre l’amore di una madre che
è altrove e lo troverà in Suor Paola che
scoprirà la sua necessità di amare.
Anche Fati ha un bambino e ne aspetta un altro, ma non riesce ad
amare il primo, sempre in attesa di un gesto d’affetto, affamato di
amore e di attenzioni; ma Fati nasconde un segreto che Lu le urlerà
senza pietà.
La foto di quella madre che è attaccata sulla testa del letto, la madre
del patrigno abusante dal quale attende anche il secondo figlio.
Realtà sconvolgenti queste, di traumi precoci, di maternità
involontarie e incoscienti, immature e violente.
E le suore che concedono e regolano: concedono feste da ballo dove si
danza come le “puttane”, dicono le ragazze stesse, mentre le suore da
fuori regolano vegliano e vigilano dall’alto e dal basso della loro
condizione.
Solo dal 30 dicembre 2020 l’Argentina ha legalizzato l’aborto e il
film/documento è stato girato poco prima.
Ma prendersi cura dei propri figli, laddove si è in grado, non vuol dire
amare; il senso materno, che non è istinto, può nascere anche se non si
è madri biologiche, vedi Suor Paola, e essere non pervenuto anche se
lo si è.
Intanto le suore esercitano la loro missione: insegnare cos’è la “sacra
famiglia” composta da Maria Giuseppe e il Bambino Gesù che i
bambini devono baciare e poi procedere con il disegno della propria
famiglia: una lezione che definire crudele, sembra un esercizio di stile
linguistico.
Anche la parabola della pecorella smarrita sembra non funzionare
quando Lu torna dopo essere scappata per giorni con il fidanzato:
Nina rischierà di essere affidata e nel frattempo madre e figlia saranno
allontanate dall’hogar.
Il sorprendente film rivela il talento documentarista della Delpero: un
ritratto costruito dall’esperienza di anni vissuti in queste realtà.
Dialoghi, volti, situazioni, narrazioni estremamente credibili, un
neorealismo di ritorno quello della regista assolutamente costruito sui
fatti.
Lo smalto, i trucchi, i vestiti rimediati, donati, i lividi, i traumi, la
violenza, l’impossibilità di amare, la scoperta dell’amore: oggetti,
sentimenti, difficoltà di vite segnate per sempre.
Di questo e di molto altro tratta questo documento: Nina ascolta
quello che le sta per accadere e scappa tra le braccia di Suor Paola
ormai senza velo, strappatole dalla Maddalena della situazione che le
restituisce una nuova s-veste, riconsegnandola ad una potenziale
maternità soffocata dalla scelta estrema.
Chi è una madre, cos’è una madre e cosa significa esserlo.
Si può diventare tale solo per un incidente biologico?
Deve esserci una scelta?
Perché la responsabilità ricade sempre sulle madri in un pianeta di
uomini assenti se non sotto forma/presenza di spermatozoi?
Nessuna figura maschile compare in questo film tranne un tale che
arriva di corsa per strada per salire su un autobus e andare via. La
metafora di una assenza; la cronaca di una contumacia annunciata
quella maschile dalla accidentalità di un incontro sessuale che lascia il
segno e a volte, troppo spesso la ferita in un corpo femminile fecondo
suo malgrado.
Maternità accidentali e inconsapevoli, maternità abusate e violate
anche dalle rispettive madri; non maternità altrettanto misteriose e
tragiche su corpi che incarnano il proprio supplizio o la propria
tormentata inviolabilità.
Due mondi a confronto quelli del corpo della verginità per la quale “
con Cristo non manco di nulla” a quelli del corpo della maternità per il
quale con un figlio manco di tutto.
La qualità stilistica della Delpero si nota nei particolari: le attrici non
professioniste e la loro potenza, i giocattoli ovunque, i poster, i
ventilatori rumorosi, le stanze semiaperte, i quaderni, i colori, il
disordine, gli stendipanni, lo scotch rubato per depilarsi, il deodorante
negli slip, gli smalti sempre presenti come unici colori concessi, sono
l’attenzione riposta su un mondo osservato con estrema lucidità.
In molte ma soptrattutto in queste condizioni narrate dal film la
gravidanza smuove rabbia, paura, frustrazione.
L’amore non è esente da odio sebbene la retorica sulla maternità
tenda a soffocarlo;

nella donna, infatti, molto più marcatamente che nel maschio, si
dibattono due soggettività antitetiche perché una vive a spese dell’altra.
Una soggettività che dice ‟io” e una soggettività che fa sentire la donna
‟depositaria della specie”.
Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell’amore materno,
ma anche dell’odio materno, perché ogni figlio, vive e si nutre del
sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo
spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua
carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio. Se
poi il figlio è figlio dell’illegalità, del tradimento, della povertà, della
paura, della sprovvedutezza, allora non solo il conflitto tra le due
soggettività, ma anche l’impossibilità di prefigurare un futuro per il
figlio scava nell’inconscio della madre quel che non vuol vedere e
constatare ogni giorno: che il proprio figlio è troppo distante troppo
dissimile dal proprio sogno o dal proprio desiderio.
È a questo punto che l’ambivalenza amore-odio, che il mondo delle
madri conosce meglio del mondo dei padri, si potenzia e chiede una
soluzione che non può trovarsi se non nel riconoscimento e
nell’accettazione di questa ambivalenza come cosa naturale, e non con il
senso di colpa che può nascere dall’interpretarla come incompiutezza o
inautenticità del proprio sentimento.
Il rimedio suggerito è allora quello di ‟accudire le madri”, perché, per la
forma che ha assunto la nostra società, forse, per molte donne, troppa è
la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l’occupazione
del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo. E quando l’anima
è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo
fortifica, il terribile è alle porte, non tanto come atto inconsulto, ma
come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all’amore
separandolo dall’odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il
sentimento truce.
La natura contamina questi estremi. E la madre, che genera e cresce
nell’isolamento e nella solitudine, conosce quanto è fragile il limite. Non
sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei.
Per questo, natura vuole che a generare si sia in due, non solo al
momento del concepimento e del parto, ma soprattutto nel momento
dell’accudimento e della cura.
Dove a essere accudito, prima del figlio che segue la sua cadenza
biologica, è la madre, che ha messo a disposizione prima il suo corpo, poi
il suo tempo, poi il suo spazio esteriore e interiore, infine l’ambivalenza
delle sue emozioni che camminano sempre sfiorando quel confine sottile
che separa e a un tempo congiunge la vita e la morte, perché così vuole
la natura nel suo aspetto materno e crudele, che le madri avvertono
quando affondano in quella luce nera e così poco rassicurante che fa la
sua comparsa nell’abisso della solitudine.
(Umberto Galimberti)

“Maternal” in novantuno minuti riesce a insediare e invadere l’abisso
della nostra interiorità difronte a questo tema: come un eccellente e
onesto film documento non può considerare l’ipotesi di un finale tanto
meno di un misero happy end. Presenta, racconta, ritrae, documenta e
fa rigorosamente epochè di qualunque giudizio e soluzione. GRAZIE!



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Ideato e realizzato da Sandro Alongi
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