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Beatrice Bianchini
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MARX PUÒ ASPETTARE (’96)

beatrice bianchini
Pubblicato da in 2021 ·
di Marco Bellocchio

Scopo dell’arte non è riprodurre il visibile ma renderlo visibile
(Paul Klee)

Camillo è morto nel dicembre del 1968, si arrende alla vita
mentre i giovani fanno la rivoluzione,
quella rivoluzione che per lui “poteva aspettare”.
Aveva altre priorità Camillo che non concedevano spazio ad altro, e
nessuno aveva inteso questa intima tragedia.
L’innocenza anonima di Camillo era stata travolta da un gemello di
successo, Marco, un fratello intellettuale e un sindacalista, le due
sorelle erano state a guardare mentre tutti vivevano proiettati su sé
stessi, mentre il padre moriva di cancro, la madre viveva ubriaca di
fede e il primogenito riempiva la casa di urla di follia.

L’incipit con un tavolo a ferro di cavallo, riunisce tutta la famiglia,
probabile ultima occasione per stare tutti insieme.
Camillo, l’angelo gemello di Marco era nato tre ore dopo il fratello,
asfittico e per questo battezzato tre volte per consentirgli di accedere
al limbo… ma continuò a vivere, a modo suo,
forse segnato per sempre da questa nascita.
I due gemelli erano cresciuti con il latte artificiale e il ricorso ad una
balia: la madre non si era mai perdonata di non produrre latte.
Mentre Mussolini prendeva il potere, il regista mostra la foto dei due
gemelli con lo sguardo impaurito e procede con interviste ai familiari
e immagini di repertorio.
Il 13 luglio del 1944 Piacenza era stata travolta dai bombardamenti, la
famiglia aveva dovuto sfollare, quella stessa famiglia che al
referendum aveva votato per la monarchia e non per la repubblica.
Marco e Camillo andavano a scuola insieme ed erano spaventati dal
terrore dell’inferno e del comunismo insegnati dai preti nella scuola
media di S. Vincenzo.
Intanto Camillo fu messo a dormire nella stanza del fratello maggiore
Paolo, più grande di 10 anni con disturbi psichici; non manifestò
nessun rifiuto in merito ma faticava a studiare e fu mandato in un
istituto tecnico.
Un velo di malinconia lo accompagnò sempre sebbene si circondasse
di amici e conducesse una vita apparentemente frivola e disimpegnata.
Una richiesta rivolta al fratello regista che non ricorda di avergli
risposto, lo lasciò confuso in merito alla sua realizzazione
professionale che non sembrò soddisfarlo neanche una volta
raggiunta.
Dai racconti sembrava non avere alcuna vocazione,
sembrava confuso e indeciso.
Camillo non attirava l’attenzione né per eccesso né per difetto e la
mancanza di riconoscimento, il suo non essere visto lasciò
sicuramente un segno indelebile nella formazione della sua
personalità e dell’autostima.
E mentre il fratello Marco riceveva riconoscimenti e premi e lo
invitava a buttarsi nell’ottimismo rivoluzionario, Camillo rispondeva
che Marx poteva attendere, l’ottimismo non lo riguardava.

Il 27 dicembre del 1968 si suicida lasciando due lettere.
La madre si sveste, urla si chiede perché non muore; dichiarerà poi di
comprendere chi si droga e chi si ubriaca….
Non riesce ad andare al cimitero, si sente respinta.
Crede di finire nelle fiamme dell’inferno, vive l’orrore biblico del
vecchio testamento quella cecità della fede
rappresentata ne I pugni in tasca.
In famiglia, nonostante le lettere c’era chi non credeva al suicidio ma
ad un incidente; c’era chi inventava di averlo sognato felice.
Nessuno si era accorto della tragedia di Camillo: qui si concentra l’
indagine di Bellocchio con il riconoscimento delle dovute
responsabilità prive di falsi sentimentalismi; non averlo amato
abbastanza ha determinato l’esigenza di ricordare la tragedia e di
essere presenti alla stessa.

Come in questo caso, Bellocchio ha sempre riavvolto, riprodotto,
declinato il film della sua vita con uno sguardo felino, assalendo il suo
vissuto con interpretazioni incisive e chirurgiche,
senza ipocrisie e sentimentalismi.
Un cinema anarchico il suo, nato sulle ceneri del neorealismo; iniziato
con I pugni in tasca ( 1965) e continuato come un’autoanalisi
matematica, logica che squarcia il velo di Maya della rappresentazione
per gettare l’acido di una volontà inconscia, incausata, irrazionale e
caotica che disvela l’Aletheia autografata dal regista come
profanazione della famiglia borghese
che vive nella regola della falsificazione.
La sua filmografia come Via Crucis psicoanalitica non autoassolutoria
dove ogni film è una stazione autobiografica o biografica dalla quale
emerge il suo vissuto, attraverso lo spaccato storico-sociale e la
visione antiborghese politica e familiare disfunzionale rappresentata
in modo assolutamente lucido: la capacità encomiabile del regista di
organizzare la rappresentazione della logica della illogicità del sistema
famiglia, società, politica, cultura.
La dialettica cinematografica di Bellocchio apparentemente hegeliana
compie il suo percorso e approda all’inevitabile rifiuto di una sintesi
conciliatoria tra tesi e antitesi per difendere la funzione primaria della
dialettica come strumento di comprensione del reale: una dialettica
negativa che mette in discussione l’identità di ragione e realtà per
svelare le disarmonie e le contraddizioni non conciliate che
caratterizzano il mondo in cui viviamo.
Il suo è un cinema di denuncia: fa riflettere senza concessioni e porta
alla superficie tutto ciò che si vorrebbe dimenticare; fa parlare ciò che
l’ideologia nasconde ponendosi come anticipazione utopica di un
mondo a misura d’uomo quel mondo che è stato messo in pausa dalla
risposta di Camillo, quando all’invito rivoluzionario del fratello aveva
risposto: “Marx può aspettare”.



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