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Beatrice Bianchini
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I FEEL GOOD (‘103) (2018)

beatrice bianchini
Pubblicato da in 2018 ·
di Benoit Delépine e Gustave Kervern

Cumuli di oggetti usati e dismessi aprono i titoli di testa del film; un uomo cammina lungo i bordi dell’autostrada vestito da un candido accappatoio e ciabatte di spugna di un hotel di lusso.
Arriva presso una comunità gestita dalla sorella Monique la quale riconosce subito Jacques del quale non aveva notizie da due anni.
Commossa lo accoglie immediatamente nella sala mensa dove stanno mangiando tutti i collaboratori della comunità sorpresi da questa figura inconsueta per il luogo vissuto da persone in difficoltà, lasciate ai margini della società.
Jacques è appena fuggito senza pagare da un hotel e non vede la sorella da quando i genitori lo avevano allontanato da casa in virtù del suo comportamento finalizzato solo a truffarli e a vivere comodamente con i loro risparmi.
Il fratello cialtrone, mette all’opera la sua volgarità umana per indurre la sorella e i collaboratori del luogo, già messi a dura prova dalla vita, a perseguire attraverso la chirurgia estetica un aspetto “radicalmente” rinnovato da consentirgli di inseguire il sogno del successo e della carriera.
Una insinuante subdola opera di persuasione quotidiana, sciocca e superficiale gli consentira di organizzare un viaggio della speranza alla volta della Bulgaria, dove chirurgia estetica low cost consentirà miracolosi risultati quali per esempio quello di far diventare un calciatore famoso un anziano signore malandato.
Il viaggio viene condotto su un camion allestito come un aereo e prosegue su una limousine per matrimoni allestita con un collage di carrozzeria più o meno artigianale.
La dinamica surreale, ironica, tragicomica di questo tour prevede anche la visita del Buzludzha, l’enorme anfiteatro/monumento eretto nei primi anni ’80 dal partito comunista bulgaro nel cuore dei Balcani.
Delépine e Kervern esperti di cinema a sfondo sociale, dove le dinamiche della disoccupazione, dello sfruttamento, del lavoro e dei meccanismi del capitalismo, non esitano neanche questa volta a trattare il tema in maniera sorprendentemente efficace proprio in virtù della rappresentazione bizzarra e grottesca.
Il film è stato girato all’interno della comunità Emmaus di Lescar Pau, nel sud della Francia, con i volti e i corpi di persone evidentemente sopravvissute proprio in virtù di una realtà che li ha accolti e recuperati al lavoro, al riconoscimento e all’integrazione.
Dialoghi nonsense, citazioni imprevedibili quelle di Jacques che per la sorella ha un disturbo che va curato, quello della compulsione e l’ossessione spregiudicata a diventare miliardario raggirando con qualunque mezzo ogni povero cristo che incontra… mentre la comunità raccoglie persone di diverse estrazioni e provenienti dalle situazioni più disparate per consentire loro di prendere coscienza delle ingiustizie sociali e per recuperare il lavoro condividendo obiettivi comuni nella lotta contro ogni genere di ingiustizia e facendo in modo che i poveri possano diventare ancora costruttori del proprio avvenire. Monique conserva le ceneri dei genitori morti nella Simca di famiglia, unica proprietà che ha recuperato e conservato come luogo di incontro con i suoi cari che le hanno insegnato cosa significa essere comunisti.
Una serie di personaggi eccentrici conducono ad un finale sorprendente con il quale l’obiettivo della bellezza estetica si ribalta in quella della presentabilià etica.
Jacques è la personificazione del capitalismo acefalo, disposto ad adoperare psicopatologicamente ogni mezzo pur di raggiungere il fine del profitto. E’ l’incarnazione dell’induzione al bisogno con il quale il sistema subdolamente manipola le coscienze per conservare se stesso e per tenere sottomessi gli individui.
E’ la patologica e preordinata integrazione dei suoi consumatori, estranei alla scelta, in quanto vittime dei bisogni suscitati e determinati dal mercato e dal profitto, resi passivi ed eterodiretti, annullati come persone e ridotti a massa informe di miseri consumatori.
Nessuna realtà può esserne immune, neanche quella di una comunità che fa della vita al servizio degli altri il suo programma.
Nessuno come Kervern e Delèpine riesce a trattare temi così fondamentali e ormai invisibili con la leggerezza acuta di uno sguardo concentrato sul problema; la narrazione tragicomica e surreale si insinua con precisione e assoluta drammaticità sul sistema capitalistico, sezionando come si fa attraverso un esame autoptico la neoplasia che divora le cellule di organi ormai inoperabili. Lungometraggi come risonanze magnetiche di un sistema talmente compromesso da invitare a fragorose, esplosive, inevitabili risate…
Il sarcasmo di chi sa come azionare il doppio sguardo che fissa l’orrore, gli tiene testa e ci gioca a dadi.
Il cinema dell’assurdo che dice il vero, il cinema della gioia che annuncia la tragicità, il cinema della leggerezza che incarna la abissale distanza.
Quello che Nietzsche diceva degli antichi greci potrebbe ripetersi per questi maghi della rappresentazione:
solo i veri artisti sanno essere superficiali per profondità: “per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie; all’increspatura, alla scorza, adorare l’apparenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero olimpo dell’apparenza!”
Il cinema della profondità della superficie, di una volontà di superficie che per nulla “superficiale” cela invece la consapevolezza propria di chi ha osato gettare lo sguardo nel volto abissale dell’esistenza e del sistema.



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